Il teatro di Eduardo De Filippo è dentro il cassetto di un mobiletto nascosto nella casa più antica di Napoli, separato dai travisamenti ai quali è stato spesso sottoposto, in qualche occasione pure a rischio dell’oltraggio, maldestramente “impulcinellito”, a sua dispetto, che a misura della sua anima fiera e rigorosa, proprio indossando la maschera di Pulcinella aveva fornito al mondo l’ottava più bassa dell’ennesimo grado di discrezione di una voce che non ne può più di essere avvicinata ogni giorno a mo’ di avamposto ambulante per la pubblica spensieratezza. Contro ogni tradizione dell’esasperazione, il palcoscenico di Eduardo ha saputo riunire in sé il lume perpetuo del teatro universale, condotto dentro il cuore della parola napoletana. Il teatro delle gazzose, dei quarti di pizza e delle castagne d’inverno, che spesso erano il pasto degli attori tra un atto e l’altro, di quando a Napoli c’erano impresari che per cacciare il pubblico usavano le manichette dei pompieri.
Eduardo ha insegnato a vivere, e non si fraintenda la sua didattica per un formulario dottrinale o per qualche codice dell’educazione morale. Eduardo ha insegnato a vivere perché ha raccontato la vita senza che nient’altro potesse sottrarla alla necessità di imparare. Il mistero del suo teatro si è realizzato attraverso l’assenza della parola fine. Con Eduardo il palcoscenico non si chiude, ma senza alcuna necessità d’indagine e in completa assenza di sospetti d’incompiutezza. Il teatro è come la vita, e come tale nessuno ha facoltà di domandargli comprensione. Eduardo, forse, non ha abitato il palcoscenico, ma lo ha cambiato. Ha saputo inoltrarvi nuovi sussurri, educandolo a un nuovo campionario di suoni di fondo, nella più dolorosa esplorazione di un transito sopra inconfessabili calvari interiori. Goethe ha scritto che gli attori conquistano il nostro cuore senza dare il loro. Alcuni, forse, non possono darlo perché costretto a battere altrove.
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