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La canzone Napoletana - Parte I

La canzone Napoletana - Parte I

(di Gaetano Iodice)

Gli studiosi da sempre sono concordi a definire come prima canzone napoletana, nella concezione moderna del termine, i versi e la musica della celebre composizione "Te voglio bene assaje", scritta nel lontano 1835 dall'ottico e inventore dell'aletoscopio, (strumento per rivelare i bolli e sigilli contraffatti) Raffaele Sacco, mentre la paternità musicale, rimasta celata fino ad oggi, si attribuisce al compositore Filippo Campanella, mentre taluni, per l'armonia molto simile alla musica da camera in voga all'epoca, attribuiscono le note a Gaetano Donizetti. Dilemma a parte, non tutti sanno che la canzone napoletana, nasce ed evolve nel corso dei secoli, molti secoli prima dell'ottocento, nella Napoli di Federico II di Svevia, precisamente nel XIII secolo, quando il regnante trasforma il capoluogo campano nel centro culturale tra i più importanti se non il più importante d'Italia e d'Europa, attraverso opere di risanamento urbano e la costruzione dell'omonima Università, che tutt'ora si erge nel tratto finale del conosciutissimo Corso Umberto I di Napoli, la prima Università laica del mondo, capace di attrarre a se giovani da tutta l'Europa per l'efficienza e l'ospitalità che il re porgeva agli studenti, offrendogli stanze per il soggiorno studio a bassissimo prezzo.

D'altra parte c'era la Napoli umile e proprio tra quella contadina residente in gran parte lungo la collina del Vomero, all'epoca non urbanizzata, nascono i primi versi, scritti da omonime lavandaie che chiedevano una grazia al Sole per asciugare il bucato o semplicemente un fazzoletto di terra promesso dal re e non ancora ricevuto.

                  

JESCE SOLE

(ANONIMO DEL '200)

Jesce Sole, Jesce Sole, (Esci Sole, esci Sole,)

nun te fa cchiù suspirà, (non farti più aspettare,)

siente maje che le figliole (possibile che le fanciulle)

hanno tanto da prià? (debbano tanto invocarti?)

Canto delle lavandaie del Vomero

(ANONIMO DEL '200)

Tu m'haje prommiso quatto moccatora, (Tu mi hai promesso quattro fazzoletti,)

oje moccatore, oje moccatora. (oh i fazzoletti, oh i fazzoletti,)

Io sò benuto se, io sò benuto, (Io sono venuto, io sono venuto,)

se me lo vuò dare, (me li vuoi dare,)

me lo vuò dare! (me li vuoi dare!)

E si no quatto, embè, dammenne ddoje, (E se non quattro, allora, dammene due)

oje moccatora, oje moccatora. (oh i fazzoletti, oh i fazzoletti)

Chillo ch'è 'ncuolla a tte, nn'è rrobba toja, (quello che hai addosso, non è roba tua,)

me lo vuò dare, (me li vuoi dare,)

me lo vuò dare! (me li vuoi dare!)

Con dovizia di particolari, sono invece i canti popolari all'epoca Angioina (1266-1442), per l'usanza dei napoletani di trarre spunto per canzoni, dagli avvenimenti, talvolta scandalosi, della politica. Nella lotta sviluppatasi dal 1378 tra il Papa Urbano VI e l'Antipapa Clemente VII, si erano inseriti il re di Napoli, Carlo III Durazzo D'Angiò e sua moglie Margherita, i quali avevano preso le parti dell'usurpatore; e anzi la regina Margherita non esitò a proclamare ai quattro venti che il Papa era pazzo, sicché questi, nel concistoro del 1385, lanciò una scomunica contro l'intera famiglia reale di Napoli fino alla quarta generazione. Carlo III reagì promettendo diecimila monete d'oro a chi gli avesse portato la testa del Papa, ma fu lui, invece, a rimaner vittima di un attentato e il trono partenopeo venne occupato nel 1386, da suo figlio Ladislao, di appena nove anni. Data la minore età del nuovo re, gli affari di governo andarono in mano alla vedova regina Margherita Durazzo.

Ecco un celebre esempio di come fu bersagliata la regina Margherita:

Frusta ccà, Margaritella, (Vai via, Margherita)

ca si troppo scannalosa, (che sei troppo scandalosa,)

ca pè ogni poca cosa, (che per ogni piccolo ostacolo,)

tu vuoje annanze la gonnella, (vuoi privarti della gonna,)

frusta ccà, Margaritella! (vai via, Margherita!)

Un altro celebre esempio è invece:

Muorto è lu purpo, e sta sotto a la preta, (Morto è il polpo, e giace sotto lo scoglio,)

muorto è ser Janni, figlio de poeta! (morto è Sergianni, figlio di poeta!)

si riferisce all'uccisione avvenuta in una notte del 1432, sotto il regno della regina Giovanna II D'Angio Durazzo, del potentissimo ministro Sergianni Caracciolo ad opera di Pietro Palagano. Ungherese di nascita, Giovanna II fu la più erotizzante sovrana che abbia mai occupato il trono di Napoli; e se è vero che costruì e valorizzò chiese e monasteri e che protesse gli artisti e i dotti, è altrettanto vero che trasformò in un letto il suo trono stesso e che, non paga delle attenzioni di Sergianni Caracciolo e di Pandolfello Piscoco, suoi amanti in carica, andava a sera, a fare il giro delle scuderie per chiedere "affettuosità" e palafrenieri e cavalieri. Ricordiamo anche i famosi "Bagni della regina Giovanna" di Sorrento, chiamati così, archè si racconta che la sovrana, durante i periodi di vacanza, passasse allietanti momenti insieme ai suoi diversi amanti, talvolta pescatori del posto.

Di tutt'altro tono, è una canzone risalente proprio alla caduta degli Angioini e riflettente, forse, le sventure dell'eroica regina Isabella di Lorena, moglie di Renato D'Angiò, costretta dopo l'avvento Aragonese, a una fuga umiliante:

Nun me chiammate cchiù donna Sabella, (Non chiamatemi più donna Isabella,)

chiammateme Sabella sventurata. (chiamatemi Isabella sventurata.)

Patrona i' era 'e trentasè castella, (Ero padrone di trentasei castelli,)

la Puglia bella e la Basilicata. (della bella Puglia e la Basilicata.)

Con l'entrata a Napoli, nel 1443, di Alfonso I D'Aragona, ebbe inizio, per l'intera Italia meridionale, un grande periodo di splendore. Tra il fiorire di maestri locali e il confluire di maestri stranieri fu dato un grandissimo sviluppo all'architettura, sicché a Napoli si manifestò, sebbene in maniera diversa che in Toscana il Rinascimento. Inoltre sotto gli aragonesi il dialetto napoletano, elevato a lingua ufficiale, entrò a corte favorendo un enorme incremento della poesia: in napoletano di espressero volentieri poeti come, il Pontano, il Caracciolo e perfino il Cariteo, che pure era spagnolo! 

In particolare, Ferrante I D'Aragona, che regnò nella seconda metà del Quattrocento, non si circondò d'altro che di poeti dialettali: Francesco Galeoto consigliere, Francesco Spinello soprintendente all'edificazione delle mura, Cola di Monforte  ambasciatore, Michele Richa maestro d'atti, Leonardo Lama avvocato fiscale. Questi oltre ad essere gli uomini più fedeli al sovrano furono autori di strambotti, frottole, ballate e farse. Essi prendevano scopertamente ispirazione dalla poesia popolare anche se, talvolta, mescolavano agli elementi dialettali, quelli petrarcheschi e addirittura latini.

Non meno di trecentocinquanta componimenti di rimatori napoletani del quattrocento sono conservati fra la biblioteca Nazionale di Parigi al codice 1035 e la biblioteca Apostolica Vaticana al codice 10656. Per la maggiorparte anonime, queste rime privilegiano i nomi dei già citati ministri di Ferrante I D'Aragona, nonché quelli di Giovanni Treccali, Dragonetto Bonifacio, Celio Friscarola e del barone della Favarotta.

Risalgono a questo periodo le cosiddette "canzoni di Capodanno" dedicate a questa o quella ricorrenza, di esse però, non c'è stato tramandato quasi nulla. Ci rimane invece, il frammento di una canzone attribuita a Jacopo Sannazzaro, l'autore dell'Arcadia e che divenne popolare subito dopo la caduta degli Aragonesi:

Simmo li povere, povere, poveri,  (Siamo i poveri, poveri, poveri,)

e venimmo da Casoria; (proveniamo da Casoria;)

Casoria e Messina, (Casoria e Messina,)

simmo li poveri pellerine. (siamo i poveri pellegrini.)

Quando, nel 1502, cadde sotto la dominazione spagnola e da reame indipendente divenne viceregno, Napoli, almeno ufficialmente, perse l'autonomia linguistica. Prevalse lo spagnolo e la lingua napoletana venne bandita dagli atti pubblici. Questo avrebbe dovuto derivarne un impoverimento della poesia popolare e invece, stranamente, avvenne l'esatto contrario, ma di questo ne parlerò nel secondo capitolo della straordinaria storia della canzone napoletana.