di Gaetano Iodice
"Michelemmà" Storia di un Pittore-Autore-Posteggiatore, Salvatore De Rosa, alias Salvator Rosa e la leggenda della prima Tarantella, tra le più conosciute al mondo del XVII secolo.
E' nata 'mmiezo ô mare…
Introduzione: In una celebre satira scrisse, "Il saper cantare è gran vergogna e la musica è arte sol di puttane e di bardasse", ma fra il dire e il fare c'è di mezzo il mare, ed è così che Giovan Battista Passeri, suo amico, ci racconta un uomo completamente diverso dalle sue enunciazioni, che si divertiva a suonare in pubblico e a cantare le sue composizioni in lingua napoletana, accompagnato da liuto e ad affermarlo sarà anche Giosuè Carducci, suo assiduo studioso.
Salvator Rosa, pittore napoletano del Seicento le cui opere sono esposte nelle maggiori gallerie del mondo (dal Louvre di Parigi al National di Londra, agli Uffizi di Firenze) viene volentieri considerato l'autore di Michelemmà, che è poi fra le canzoni napoletane di quel secolo, la più famosa e più divertente. Ma è proprio sicuro che a scrivere questi versi è stato proprio Salvator Rosa? No, non è affatto sicuro; anzi c'è da dire che molti dubbi derivano dal fatto che, in epoche varie, sono stati montati colossali falsi da persone che, convinte della loro tesi, volevano imporla a tutti i costi; e nel novero di questi falsificatori di documenti rientra perfino Salvatore Di Giacomo. L'attribuzione di Michelemmà, a Salvato Rosa è stata considerata arbitraria anche da Benedetto Croce, ma ne i falsari clamorosamente smascherati ne l'opinione di Benedetto Croce possono del tutto far escludere la paternità dell'opera al celebre pittore.
Michelemmàrappresenta senza ombra di dubbio, un punto fermo nella storia della canzone napoletana. Anche per questo è stata collegata a Salvator Rosa, il quale, e non vi è dubbio, è stato il primo "posteggiatore" napoletano(Uno di quegli ambulanti che vanno nei ristoranti e nelle bettole a cantare e suonare per ricavarne una mancia, lauta o meno).
Vita, biografia e supposizioni: Figlio di un agronomo, Salvatore De Rosa, nato il 20 Giugno 1615 nella zona allora campestre dell'Arenella, dopo aver trascorso qualche anni in seminario, andò a lavorare nella bottega della zio materno, Domenico Greco, il quale campava la vita dipingendo Madonne e Crocefissi. Appena dodicenne, Salvatore preferì svincolarsi dallo zio e andarsene in giro per Napoli, munito di cavalletto e colori, a dipingere paesaggi desolati, montagne selvagge, rocce enormi, cieli nuvolosi o cavalieri in lotta fra loro. Spesso si faceva accompagnare da queste sue passeggiate pittoriche da fanciulle e ragazzi, che lui poi metteva in allegria suonando il liuto e improvvisando madrigali: ha inizio insomma, la sua vicenda di cantore, che a noi interessa, in questa occasione, più della vicenda di pittore.
Nel 1635, all'età di vent'anni, Salvator Rosa si trasferì a Roma, dove il cardinale Brancaccio gli commissionò alcuni quadri. Andò ad abitare in via del Babuino (allora via Paolina) all'angolo di via Margutta. Nella Roma di Papa Urbano VIII, venivano tenuti in considerazione solo i pittori di soggetti religioni, mentre quelli paesaggistici venivano a malapena tollerati. Fu così che, esauriti i lavori per il cardinale Brancaccio, Salvatore si trovò disoccupato.
Correva l'anno 1639, stavano per iniziare le feste di Carnevale, e Salvator Rosa decise di avviare una campagna promozionale. Le feste di Carnevale all'epoca duravano giorni e si svolgevano nelle piazze e nelle strade del centro. Si organizzavano "zingaresche", cioè comicissimi dialoghi fra sedicenti nomadi e soprattutto si improvvisavano "guidiate", vale a dire farseschi processi a carico di presunti ebrei. In una di quelle sere a piazza Navona, arriva un carro trainato da buoi, ci sono dei musici a bordo, tutti sovrastati da uno con a volto una maschera ed in braccio un liuto, che ottenuto il silenzio dei presenti, inizia ad intonare satire contro letterati, artisti, politici e infine ariette napoletane. Continua così per tutte le sere fino all'ultima di Carnevale in cui finalmente svela il suo volto; E' Salvator Rosa, e tutta Roma non fa che parlare di lui sia come pittore che come autore di canzoni napoletane. Michelemmà potrebbe essere stata lanciata proprio nel contesto di questo Carnevale, ma è solo un ipotesi.
Michelemmà contiene già nel titolo un affermazione: "Michela è mia". Viene lodata, verso dopo verso, una bellissima ragazza di nome Michela, nata in mezzo al mare durante una scorribanda di pirati Saraceni, e per i bei occhi della quale gli innamorati si suicidano almeno a due per volta. Il testo poetico, come si può osservare dalle prime strofe, è piuttosto labile, nonché strampalato:
E' nata 'mmiez' ô mare,
Michelemmà,
Michelemmà.
Oje 'na scarola,
Li turche se ce vanno
a reposare.
Chi pè la cimma e chi,
Michelemmà,
Michelemmà,
pè lo streppone.
Viato chi la bence
a 'sta figliola.
Meno strampalato, il testo della canzone risulterà a chi sia a conoscenza del fatto che, nelle isole del Golfo di Napoli, gli ischitani, cioè i nativi di Ischia, vengono chiamati "iscaroli" e dunque "scarola" equivarrebbe non alla verdura ma a "ragazza ischitana". La musica di Michelemmà ci avverte trattarsi di una autentica "canzone a ballo", dalla dolce melodia in fa, in tempo 6/8 allegro, in cui già si scorge l'incamminarsi verso quella che sarà la tarantella.
Con o senza Michelemmà, certo è che il rilancio pubblicitario montato nel Carnevale 1639 diede i suoi frutti. A Salvator Rosa arrivarono richieste di quadri da tutte le parti; il più illustre fra i committenti fu Francesco I di Modena, rappresentato dal suo ambasciatore a Roma, Francesco Mantovani. Allo scopo, probabilmente di non lasciar affievolire la sua popolarità, il giovane pittore prese l'abitudine di invitare sovente, nella sua casa di via del Babuino, personaggi dell'aristocrazia romana, uomini politici, dame e damigelle. Biografi contemporanei hanno testimoniato che Salvator Rosa, in questi ricevimenti, si avvaleva, per cantare e suonare, di un grosso album rilegato in pergamena, sulle cui pagine erano riportate arie e cantate.
Conclusione: Salvator Rosa si spense a Roma il 15 Marzo 1673, e tra falsi storici come quelli capitati in mano al letterato inglese Charles Burney nel 1770 a Roma, bensì un album di 119 fogli, in cui venivano attribuite ventitré composizioni a Salvator Rosa, scopertesi poi di altri autori, tranne tre, e il tentativo di Salvatore Di Giacomo nel 1901 che confezionò a imitazione stampe settecentesche creandone una contenente il testo Michelemmà, firmata da Salvator Rosa, anche questa smascherata, rimane altresì la leggenda di questa giovane e affascinante fanciulla, Michela, di cui non si ha e forse non si avrà mai la paternità con certezza.