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48, morto che parla

48, morto che parla

L’iconoclastia napoletana invade pure il linguaggio. Fino al 1700 le inumazioni erano fatte in nicchie a forma di sedia con sotto un vaso (le «cantarelle») su cui il cadavere si disponeva seduto allo scopo di «asciugare» per colatura. Da questa usanza s’è generata la colorita offesa «Puoz sculà» (che tu possa colare) che auspica appunto quella scomoda e poco dignitosa morte. Ma è un’offesa, pure questa, priva del necessario carattere esacerbato; anzi, Puoz sculà ha una sfumatura benevola che spesso ne fa strumento di presa in giro, tutt’al più d’insofferenza, come per dire «Ma va’ al diavolo». E sono comunissime le espressioni di «giuramento» altrettanto desacralizzanti quali «Adda murì sòreme» (dovesse morire mia sorella – se non ho detto la verità), «’Ngopp a l’anema ‘e papà» (giuro – sull’anima di papà), «Nun aggia vedé i figlie mije» (dovessi non più rivedere i miei figli – se questa cosa non è vera), ecc. Il tema della morte muta a strumento di rinforzo, e non di sottrazione, alle cose della vita. Potremmo perfino azzardare che la morte a Napoli non esista, tanto rimane vincolata alla vita, tanta è la nouance tra ciò che è e ciò che non è più.

I morti di Napoli non sono mai «morti» definitivamente: non abbandonano amici e parenti, rimangono per aria, nei sogni, nei «segni», negli speciali riti di affetto e di ricordo di cui Napoli è magister. I morti si nascondono sotto i tappeti, sotto le sedie, sotto i mobili (Eduardo, «Le voci di dentro», 1948). Le anime mantengono pervicacemente i contatti coi corpi e, spesso attraverso i sogni, chiedono ai vivi l’atto semplice di pregare per loro. Ma pure questo meccanismo teologico, anziché rimanere paludato nell’austerità d’ordinanza, dirompe nel campo del casereccio; a Napoli si dice che con le preghiere le anime trovano «refrisco», refrigerio: immagine impertinente che precipita la materia spirituale a tema microclimatologico, e allora il rapporto col divino entra in cucina, associando l’anima a un cibo (capitombolo del «cibo per l’anima») che necessita di frigidaire per non (de)perire.
E cosa offre l’anima in cambio di questa «rinfrescata»? Ancora oggi i napoletani si recano nei cimiteri sotterranei della città, «adottano» un teschio e ne fanno oggetto di cure e preghiere. 

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